Premessa
Le misure di prevenzione, siano esse patrimoniali o personali, si collocano da sempre su un crinale assai scivoloso, sul confine ambiguo e delicato fra prevenzione e repressione, sospese come sono tra la loro dichiarata finalità di tutela dell’ordine pubblico ed il loro impiego a scopi “punitivi” in funzione surrogatoria o complementare rispetto agli strumenti tipici del diritto penale. Questo dualismo ha alimentato un acceso dibattito, sia in dottrina sia in giurisprudenza, tra chi considera tali misure come aventi natura meramente preventiva e ripristinatoria dell’ordine giuridico violato e chi, invece, le qualifica come vere e proprie “pene”, sostenendo che, in quanto tali, dovrebbero essere soggette all’intero statuto di garanzie proprie del diritto penale, a partire dal principio di legalità e dalla presunzione di innocenza.
In passato, la Corte europea dei diritti dell’uomo è stata chiamata più volte a pronunciarsi sull’applicazione di tali misure (si vedano, ad esempio, Arcuri e altri c. Italia [dec.], n. 52024/99, 5 luglio 2001; Capitani e Campanella c. Italia, n. 24920/07, 17 maggio 2011; De Tommaso c. Italia [GC], n. 43395/09, 23 febbraio 2017), inclusa la questione della loro natura penale che era stata costantemente esclusa (cfr., ex multis, Raimondo c. Italia, n. 12954/87, 22 febbraio 1994; Prisco c. Italia [dec.], n. 38662/97, 15 giugno 1999; Riela e altri c. Italia [dec.], n. 52439/99, 4 settembre 2001; Bongiorno e altri c. Italia, n. 4514/07, 5 gennaio 2010).
Di recente, tuttavia, la Corte ha ritenuto di dover riprendere in esame tale questione con specifico riferimento alla confisca di prevenzione e ha comunicato al Governo italiano diversi ricorsi nei quali una delle domande poste alle parti riguardava proprio la natura “convenzionalmente” penale di tale misura, anche alla luce degli sviluppi nel frattempo intervenuti nella giurisprudenza interna costituzionale e di legittimità (tra cui Cavallotti e altri c. Italia, n. 29614/16 e altri 3; Pasquale Greco e Adelina Borda c. Italia, n. 8967/21; Domenico Rugolo e altri c. Italia, n. 10846/14).
Con la decisione Garofalo e altri c. Italia del 21 gennaio 2025, pubblicata il 13 febbraio 2025, la Corte sembra però aver escluso definitivamente – e, si potrebbe dire, in modo inaspettato – la possibilità di qualificare la confisca di prevenzione come una misura intrinsecamente afflittiva e, in quanto tale, riconducibile nell’alveo delle sanzioni aventi natura convenzionalmente penale al di là della loro qualificazione nel diritto interno.
Il caso
Il caso oggetto della decisione traeva origine da due distinti procedimenti, concernenti l’applicazione di misure di prevenzione personali e patrimoniali nei confronti del Sig. M.D.B. (secondo ricorrente davanti alla Corte EDU) e di alcuni membri della sua famiglia. Il 21 dicembre 2007, il pubblico ministero presso il Tribunale di Latina formulava a carico di M.D.B. richiesta di applicazione della misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e dell’obbligo di soggiorno per cinque anni, in quanto soggetto ritenuto riconducibile alla categoria di soggetti a “pericolosità generica” di cui alla l. n. 1423/1956. All’epoca, però, il ricorrente non veniva ritenuto socialmente pericoloso e, pertanto, la richiesta veniva rigettata.
A seguito di un secondo arresto nel 2013 per reati legati al traffico di stupefacenti, il pubblico ministero avanzava una nuova richiesta di applicazione di misure di prevenzione, tra cui la sorveglianza speciale, l’obbligo di soggiorno per cinque anni e il sequestro preventivo, con successiva confisca, dei beni nella disponibilità diretta o indiretta del proposto. Tra questi erano inclusi beni formalmente intestati alla moglie, C.F., alla madre, A.R., e alla figlia, Ma.D.B., anch’esse ricorrenti davanti alla Corte EDU.
Il Tribunale di Latina, con provvedimento del 14 gennaio 2014, disponeva il sequestro dei beni intestati all’imputato e di quelli formalmente registrati a nome dei terzi. Successivamente, il 20 ottobre 2016, accogliendo le richieste della pubblica accusa, venivano applicate a M.D.B. le misure di prevenzione personali, consistenti nella sorveglianza speciale e nell’obbligo di soggiorno, e contestualmente veniva ordinata la confisca dei beni precedentemente sequestrati.
I ricorsi proposti avverso la confisca di prevenzione sono stati respinti sia dalla Corte d’appello e sia dalla Corte di cassazione. Pur riconoscendo l’assenza di una pericolosità sociale attuale tale da giustificare l’applicazione delle misure personali, i giudici dei gravami hanno confermato la confisca patrimoniale in ragione della rilevata sproporzione tra redditi dichiarati e patrimonio posseduto, unitamente all’incapacità di dimostrarne la provenienza lecita.
Nel ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo – che ha condotto alla decisione in commento – le ricorrenti C.G., A.R. e Ma.D.B. hanno denunciato, anzitutto, la violazione del principio di legalità sancito dall’art. 7 CEDU, sostenendo che la confisca di prevenzione applicata nei loro confronti, nonostante l’assenza di qualsiasi coinvolgimento nei procedimenti penali a carico di M.D.B. e di qualsiasi accertato comportamento illecito, rappresenterebbe di fatto una sanzione penale come tale soggetta alle garanzie convenzionalmente previste per la “matière pénale”.
La decisione
Per determinare se detta misura potesse essere considerata una “pena” ai sensi dell’art. 7 CEDU, la Corte ha fatto applicazione dei noti criteri Engel/Welch, valutando in particolare se la misura fosse stata applicata a seguito di una condanna per un reato; la natura e lo scopo della misura stessa; la sua qualificazione nell’ambito del diritto nazionale; le procedure che hanno condotto alla sua applicazione; nonché la sua severità (cfr. Welch c. Regno Unito, n. 17440/90, 9 febbraio 1995; Del Rio Prada c. Spagna [GC], n. 42750/09, 21 ottobre 2013; G.I.E.M. S.r.l. e altri c. Italia [GC], n. 1828/06 e altri, 28 giugno 2018).
Come noto, la confisca di prevenzione non presuppone necessariamente una responsabilità penale accertata, ma si fonda, piuttosto, sulla ritenuta pericolosità sociale del destinatario, in quanto soggetto appartenente a una delle categorie previste dagli artt. 1 e 4 del d.lgs. n. 159/2011. Tale qualificazione consente di formulare la ragionevole presunzione che i beni in quel momento acquisiti, se sproporzionati rispetto ai redditi leciti dichiarati e in assenza di prove che ne dimostrino l’origine legittima, siano il frutto di attività illecite. L’assenza di una condanna non è però sufficiente ad escludere l’applicabilità dell’art. 7 CEDU, rappresentando solo uno dei criteri da prendere in considerazione e non necessariamente quello decisivo (cfr. Balsamo c. San Marino, nn. 20319/17 e 21414/17, 8 ottobre 2019; Ulemek c. Croazia, n. 21613/16, 31 ottobre 2019; G.I.E.M. S.r.l., cit.).
Quanto alla classificazione della confisca di prevenzione nel diritto interno, la Corte ha osservato che l’art. 24, comma 1, del d.lgs. n. 159/2011 colloca detta misura ablativa nel capitolo dedicato alle “misure di prevenzione patrimoniali”, escludendo di poter desumere da tale collocazione elementi che consentano di qualificarla come una sanzione avente natura penale. La Corte ha, inoltre, rilevato come gli sviluppi giurisprudenziali susseguitisi nel corso del tempo non abbiano mai portato a una qualificazione della misura di prevenzione patrimoniale come una vera e propria pena.
Prima delle riforme introdotte con il d.l. 92/2008 (convertito nella l. n. 125/2008) e con la l. n. 94/2009 – quando la confisca di prevenzione era applicabile solo unitamente a misure di prevenzione personali e sulla base di una valutazione di attuale pericolosità sociale del soggetto – essa era considerata una “sanzione amministrativa”, finalizzata a rimuovere beni e proprietà dalla disponibilità di individui sospettati di far parte di associazioni mafiose. Le citate modifiche normative hanno, invece, introdotto la possibilità di applicare le misure patrimoniali in modo indipendente rispetto a quelle personali, disancorandole da una valutazione di pericolosità in atto, principio quest’ultimo consacrato nell’art. 18 del d.lgs. 159/2011.
Questa svolta ha sollevato interrogativi significativi, mettendo in luce potenziali criticità del sistema e alimentando dubbi sulla trasformazione della natura stessa delle misure di prevenzione.
In particolare, con la sentenza n. 14044 del 24 marzo 2013, la V Sezione Penale della Corte di Cassazione è intervenuta sul tema definendo la confisca di prevenzione come una misura “oggettivamente sanzionatoria”, proprio perché applicabile anche in assenza di una verifica attuale della condizione soggettiva di pericolo per la società. Il contrasto giurisprudenziale così generatosi ha reso necessario l’intervento delle Sezioni Unite che, con la sentenza n. 4880 del 2 febbraio 2015, hanno chiarito che, pur nel nuovo regime, la pericolosità sociale resta un requisito preliminare per l’applicazione della misura, anche se non è richiesto che venga accertata al momento della sua adozione. Il Supremo Collegio ha, dunque, ribadito che lo scopo principale delle misure di prevenzione è quello di sottrarre alla disponibilità di individui beni accumulati illecitamente, qualora non sia stata dimostrata la loro legittima provenienza.
Sul tema è poi intervenuta anche la Corte costituzionale, la quale, nella sentenza n. 24 del 2019, ha sottolineato come l’obiettivo della confisca di prevenzione sia quello di sottrarre in via definitiva determinati beni dal circuito economico e come essa, pur “incidendo pesantemente sui diritti di proprietà e di iniziativa economica”, svolga dunque una funzione puramente ripristinatoria volta a ristabilire la condizione che sarebbe esistita se quei beni non fossero stati acquisiti illegalmente.
Nell’aprire il contraddittorio sui casi sopra citati, la Corte europea aveva mostrato di attribuire particolare rilevanza, ai fini di un’eventuale riconsiderazione della questione relativa alla natura penale della confisca di prevenzione, proprio al criterio della classificazione della misura secondo la giurisprudenza nazionale, richiamando espressamente le sentenze della Corte di cassazione e della Corte costituzionale che si sono appena menzionate.
Tuttavia, nella decisione in commento (adottata all’unanimità da una Camera di 7 giudici), la Corte ha ritenuto di dover confermare le proprie precedenti conclusioni senza necessità di disporre la rimessione del caso alla Grande Camera (come l’importanza e complessità della questione avrebbero forse meritato).
In particolare, diversi sono gli elementi che la Corte ha evidenziato come rilevanti al fine di differenziare la confisca di prevenzione rispetto alle sanzioni “convenzionalmente” penali.
Anzitutto, il grado di colpevolezza del soggetto non è rilevante per determinare l’ammontare dei beni da confiscare, diversamente da quanto accade per la pena della multa la cui dosimetria è stabilita dal giudice nei limiti edittali tenendo conto dei criteri di cui all’art. 133 c.p. (Dassa Foundation e altri c. Liechtenstein [dec.], n. 696/05, 10 luglio 2007). La confisca di prevenzione ha, infatti, lo scopo di colpire i profitti presumibilmente derivanti da attività illecite poste in essere da soggetti rientranti nelle categorie individuate dalla legge, senza che essa possa mai tradursi in una misura privativa della libertà personale. Inoltre, si registra un consenso internazionale crescente sull’adozione di strumenti analoghi per sottrarre all’economia beni di origine illecita, anche in assenza di un accertamento penale della responsabilità del soggetto interessato.
La Corte ha riconosciuto come, per effetto dell’evoluzione normativa che ha introdotto la possibilità di applicare la confisca autonomamente rispetto alle misure personali, anche senza accertare una pericolosità sociale attuale o persino in caso di decesso del soggetto interessato, tale misura abbia progressivamente perso la sua originaria finalità preventiva in senso stretto, subendo una trasformazione sostanziale. Mentre, infatti, in passato, le autorità erano chiamate a formulare un giudizio prognostico sulla probabilità che l’individuo potesse commettere altri reati in futuro, oggi l’accertamento ha assunto un carattere diagnostico volto a verificare se, in un determinato arco temporale, il soggetto abbia commesso reati e acquisito, con i proventi degli stessi, beni la cui origine lecita non può essere dimostrata.
Tuttavia, la Corte non ha ritenuto necessario pronunciarsi in modo definitivo sulla questione se, per effetto di tali modifiche, la confisca abbia mantenuto una “funzione preventiva in senso generale”, osservando che la finalità di prevenzione generale – inerente all’obiettivo di garantire che “il crimine non paghi” – è anche coerente con una finalità di tipo “punitivo” e può essere considerata un elemento costitutivo della stessa nozione di “pena” in senso convenzionale. Di conseguenza, anche assumendo che la misura in questione abbia mantenuto tale “funzione preventiva”, ciò non sarebbe comunque sufficiente a concludere che essa non abbia finalità punitiva e non possa qualificarsi come materialmente penale.
La Corte ha invece attribuito rilievo decisivo alla finalità “ripristinatoria” della misura, osservando come essa “was intended to ensure that crime does not pay and to prevent unjust enrichment, by depriving the individual concerned and third parties not having a valid claim over the property to be confiscated of the profits of criminal activities, and was, accordingly, essentially of a restorative and not punitive nature” (§ 134).
In tema di invasività della misura nella sfera del diritto di proprietà, la Corte ha riconosciuto che la confisca subita dalle ricorrenti aveva indubbiamente inciso in modo significativo sui loro di diritti. Tuttavia, neppure tale circostanza è stata ritenuta, di per sé, sufficiente a qualificare la misura come una pena ai sensi dell’art. 7 CEDU, soprattutto considerando che si tratta di beni presumibilmente frutto di attività illecite, come desumibile dalla discrepanza rispetto ai redditi dichiarati.
Infine, la Corte non ha attribuito rilievo decisivo al fatto che le procedure di adozione ed esecuzione della confisca rientrino nella competenza delle giurisdizioni penali, osservando come non sia raro che tribunali penali adottino provvedimenti di natura non punitiva, come, ad esempio, il risarcimento del danno in favore della parte civile.
Alla luce di queste considerazioni, la Corte ha evidenziato la prevalenza degli obiettivi preventivi e ripristinatori della confisca di prevenzione, escludendone la riconducibilità alla categoria delle sanzioni penali ai sensi dell’art. 7 CEDU e dichiarando conseguentemente inammissibili le doglianze sollevate dai ricorrenti a tale titolo per incompatibilità ratione materiae con le disposizioni convenzionali ai sensi degli artt. 35 § 3 (a) e 35 § 4.
Le tre ricorrenti avevano, inoltre, denunciato la violazione della presunzione di innocenza, consacrata all’art. 6 § 2 CEDU, sostenendo di essere state ritenute responsabili per reati presumibilmente commessi da un’altra persona. A tal riguardo, la Corte ha ribadito che la presunzione di innocenza si articola in due dimensioni: (1) come garanzia procedurale durante i procedimenti penali e (2) come tutela contro il trattamento del soggetto come colpevole dopo un’assoluzione o l’archiviazione del caso.
Nel valutare l’applicabilità del primo aspetto della presunzione di innocenza al caso in esame, la Corte ha riaffermato la necessità di interpretare la Convenzione in modo coerente tra le sue diverse disposizioni. Ha rilevato, in particolare, il frequente legame tra gli artt. 6 e 7 CEDU, il quale vieta l’imposizione di pene in assenza di una base legale chiara. Poiché la confisca di prevenzione non è stata qualificata come pena ai sensi dell’art. 7 CEDU, la Corte ha ritenuto che il relativo procedimento non comportasse la determinazione di un’accusa “penale” ai sensi dell’art. 6 CEDU e non rientrasse pertanto nell’ambito di applicazione materiale dell’art. 6 § 2 CEDU. Non avendo le ricorrenti formulato alcuna censura in merito al secondo aspetto della presunzione di innocenza, la Corte ha dichiarato il motivo di ricorso inammissibile ai sensi degli artt. 35 §§ 3(a) e 4 CEDU.
Il soggetto proposto, M.D.B., aveva altresì invocato dinanzi alla Corte il principio del ne bis in idem, sancito dall’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, facendo valere l’esistenza di una precedente decisione, basata sui medesimi elementi fattuali, che aveva escluso una sua pericolosità sociale. La Corte ha dichiarato inammissibile anche questa doglianza ai sensi degli artt. 35 §§ 3(a) e 4 EDU, in base all’assunto secondo cui le misure di prevenzione non sono sanzioni penali e le procedure dirette all’applicazione delle stesse non sono procedimenti di natura penale ai sensi della disposizione convenzionale invocata, con la conseguenza che esse non vengono in rilievo ai fini dell’applicazione del ne bis in idem.
Conclusivamente, pur riconoscendo gli effetti para-punitivi della confisca di prevenzione, la Corte ha ritenuto prevalente la natura preventiva e ripristinatoria della misura, in linea con il margine di apprezzamento riconosciuto allo Stato italiano nella lotta contro la criminalità organizzata e nella tutela dell’ordine economico-legale, escludendo che possano nella specie trovare applicazione le garanzie previste dalla CEDU per le “sanzioni penali”.
Alcune considerazioni critiche
Questa decisione solleva alcune perplessità.
Come detto, la confisca di prevenzione non si basa più su una valutazione attuale della pericolosità sociale del soggetto né su un accertamento dell’effettiva destinazione illecita del bene, ma esclusivamente su una presunta pericolosità del proposto al momento dell’acquisto. Ne deriva una valutazione interamente retrospettiva, da per sé sola sufficiente a rendere il bene intrinsecamente e definitivamente pericoloso, e quindi suscettibile di ablazione. Questo slittamento temporale introduce un inevitabile margine di arbitrarietà nella verifica – tutta al passato – della legittima provenienza dei beni confiscati, compromettendo la natura essenzialmente preventiva della confisca. Tali criticità si acuiscono nei casi in cui la pretesa ablativa venga estesa ai beni appartenenti a familiari del proposto sulla base di una loro presunta interposizione fittizia.
La Corte ha aderito all’orientamento secondo cui la confisca di prevenzione avrebbe una funzione ripristinatoria, incidendo esclusivamente sui “profitti illeciti derivanti dai reati presumibilmente commessi” dal soggetto (§ 132). Ebbene, questa misura in realtà va ben oltre la semplice ablazione della ricchezza non giustificata da redditi leciti. In caso di sproporzione tra reddito dichiarato e patrimonio posseduto, infatti, la confisca non si limita a colmare tale divario, ma spesso investe l’intero bene interessato.
Un esempio emblematico è quello degli immobili (intestati al proposto o a suoi familiari) che siano gravati da mutuo e che, dunque, per definizione, non sono stati acquistati interamente con fondi di provenienza illecita, ma almeno in parte con regolare provvista finanziaria erogata dall’istituto di credito.
Per garantire il pieno rispetto del principio di proporzionalità, la confisca dovrebbe riguardare solo l’eventuale quota del bene non giustificata da redditi leciti, escludendo la parte coperta dal finanziamento. Nella prassi, invece, non sempre si riscontra questa corrispondenza tra il valore del bene ablato e l’ipotizzato reddito illecito, con la conseguenza che la confisca di prevenzione finisce per colpire per eccesso anche beni di provenienza non necessariamente – o non interamente – illecita, contraddicendo la sua dichiarata finalità di neutralizzazione del profitto del reato.
Inoltre, i citati parametri Engel/Welch, utilizzati per determinare la natura “penale” di una sanzione, sono tradizionalmente stati considerati alternativi e non cumulativi, con la conseguenza che la presenza anche di un solo fattore poteva considerarsi sufficiente a qualificare come penale una determinata misura. Negli anni, tuttavia, questo principio è stato progressivamente ridimensionato e marginalizzato, con particolare riguardo al criterio della gravità.
La giurisprudenza più recente – sia della Corte europea (in tal senso, ex multis, Del Rio Prada [GC], cit.; Balsamo, cit.; Todorov e altri c. Bulgaria, n. 50705/11 e altri 6, 13 luglio 2021), sia della Corte costituzionale (ad esempio, Corte cost. sent. n. 24/2019; sent. n. 148/2022) – esclude che la sola gravità della misura, considerata isolatamente, sia sufficiente a qualificarla come “pena”.
La decisione in commento si colloca in questa prospettiva, contribuendo a consolidare un orientamento che, da un lato, priva il criterio della gravità di una sua autonomia qualificatoria e, dall’altro, non considera che la confisca di prevenzione, per come applicata, ha una latitudine più ampia rispetto alla sola porzione di patrimonio di cui non sia dimostrata la provenienza lecita.
La Corte finisce così per ignorare il carattere marcatamente afflittivo di queste misure.
In questo modo, effetti sostanzialmente sanzionatori vengono legittimati attraverso misure formalmente distinte da quelle aventi una finalità punitiva riconosciuta. Un simile espediente, lungi dall’attenuarne l’impatto afflittivo, contribuisce invece ad assottigliare ulteriormente il confine tra prevenzione e repressione.