S&P vince a Strasburgo per i dipendenti del comune di Reggio Emilia

Con sentenza resa in data 25 aprile 2024 nel caso Albanese e altri c. Italia, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha accolto i ricorsi presentati dallo Studio S&P, insieme all’Avv. Bruno Guaraldi, nell’interesse di un gruppo di dipendenti del Comune di Reggio Emilia, condannando l’Italia per ingerenza nell’amministrazione della giustizia in violazione dell’art. 6 § 1 CEDU. La pronuncia si inserisce in un “filone” giurisprudenziale ormai consolidato che ha visto l’Italia più volte soccombente per l’applicazione ai giudizi in corso di norme di interpretazione autentica aventi portata sostanzialmente novativa e determinante per l’esito del giudizio in senso favorevole alla pubblica amministrazione (cfr., fra le molte, D’Amico e altri c. Italia, 17 febbraio 2022, Maggio e altri c. Italia, 31 maggio 2011, e Arras e altri c. Italia, 12 febbraio 2012).

Nella specie, la questione sottoposta all’esame della Corte riguardava la retribuzione accessoria percepita dai ricorrenti ai sensi dell’art. 18, comma 1, della legge n. 109/1994 (legge quadro in materia di lavori pubblici).

In particolare, dal giugno 1999, con l’entrata in vigore di un nuovo regolamento comunale, la retribuzione accessoria era stata decurtata dell’importo dei contributi a carico del Comune, che aveva inoltre richiesto la restituzione dei medesimi versati per gli anni precedenti. Pertanto, nell’aprile del 2000, i ricorrenti avevano adito il Tribunale di Reggio Emilia, ottenendo, con sentenza del 30 ottobre 2003, l’accoglimento della propria domanda e la condanna del Comune al pagamento della retribuzione accessoria senza la trattenuta dei relativi contributi.

Nel frattempo, le leggi n. 350/2003 (legge finanziaria 2004) e n. 266/2005 (legge finanziaria 2006) hanno fissato il limite massimo del salario accessorio al 2% lordo, includendo anche i contributi previdenziali a carico del Comune. Successivamente, il d.lgs. n. 163/2006 ha abrogato l’art. 18 della legge n. 109/1994, ristabilendo un nuovo limite massimo del salario accessorio.

La Corte d’appello di Bologna, con sentenza del luglio 2008, aveva confermato la decisione del tribunale di primo grado, ritenendo che le leggi finanziarie del 2004 e del 2006 non avessero effetto retroattivo. Tuttavia, con sentenza dell’8 novembre 2012, la Corte di cassazione ha accolto il ricorso del Comune, attribuendo efficacia retroattiva all’art. 1, comma 207, della legge finanziaria del 2006 e rigettando definitivamente le domande dei ricorrenti.

Il lungo iter processuale si è finalmente concluso con la recente sentenza della Corte EDU, che – ad 11 anni di distanza dall’instaurazione del giudizio – ha dato ragione ai ricorrenti.

La Corte ha accertato la violazione dell’art. 6 § 1 CEDU, stabilendo che l’ingerenza legislativa ha avuto un impatto diretto sull’equità del giudizio in corso. In particolare, la Corte ha ribadito che l’interesse finanziario dell’amministrazione non può giustificare un intervento retroattivo su un contenzioso pendente idoneo ad influenzarne l’esito finale in favore della parte pubblica, rilevando peraltro come, nel caso di specie, tale intervento non fosse neppure necessario al fine di risolvere un conflitto giurisprudenziale (atteso che i giudici di merito si erano costantemente espressi a favore dei dipendenti).

La Corte ha anche respinto l’argomentazione del Governo secondo cui l’intervento era necessario per evitare discriminazioni tra i beneficiari di retribuzioni accessorie, ritenendo che tale finalità non potesse prevalere sui rischi associati all’applicazione retroattiva di una normativa in grado di condizionare in modo decisivo l’esito di un contenzioso pendente.

La Corte ha, invece, escluso la violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU in ragione del fatto che l’art. 1, comma 207, della legge finanziaria perseguiva una finalità di interesse pubblico (quella di garantire la sostenibilità dei conti pubblici delle amministrazioni locali) e non aveva imposto ai ricorrenti un sacrificio sproporzionato e eccessivo (incidendo sul trattamento accessorio in misura non superiore al 50%).

La Corte ha quindi condannato lo Stato italiano al pagamento in favore dei ricorrenti di un importo complessivo di € 56.700,00, a titolo di danno non patrimoniale, e di € 53.190,00, a titolo di danno patrimoniale da perdita di chance, quest’ultimo calcolato in misura corrispondente al 15% dell’ammontare dei contributi trattenuti e non versati ai ricorrenti, e ciò in ragione del fatto che, all’epoca dell’intervento normativo censurato, vi era sì una giurisprudenza di merito univocamente favorevole alle tesi dei ricorrenti ma non era ancora intervenuta una pronuncia regolatrice della Corte di cassazione, il che escluderebbe l’esistenza di una “giurisprudenza ben consolidata”.

I ricorrenti sono stati assistiti dall’Avv. Prof. Andrea Saccucci, insieme all’Avv. Bruno Guaraldi del foro di Modena.

Per ulteriori informazioni, contattare lo Studio S&P al seguente indirizzo e-mail: studio@saccuccipartners.com.

Foto: Paolo da Reggio, duomo Reggio Emilia Italy, CC BY-SA 3.0, Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported license, via Wikimedia Commons

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